giovedì 27 luglio 2017

In equilibrio precario

Ed eccomi qui, di nuovo disoccupata.
Ormai è una condizione così frequente, nella mia vita, da essere diventata la normalità: è più strano per me essere produttiva che stare a casa a inviare CV, scrivere cose che non farò leggere a nessuno, impegnarmi nello studio e cucinare.
La precarietà lavorativa diventa precarietà esistenziale, si è sempre in equilibrio tra la voglia di indipendenza e la difficoltà a realizzarci, poterci mantenere, vivere dignitosamente del nostro lavoro. Questo non è un paese per giovani, e io sono troppo vile per fare le valigie e partire, ma forse non è mancanza di coraggio, ma amore: amore per le mie colline, per la famiglia, per gli amici; a volte mi sento terribilmente in colpa per la mia incapacità di lasciarmi tutto alle spalle e partire in cerca di fortuna, altre volte mi dico che forse ci vuole più fegato a restare e lottare, ma è davvero così o mi sto giustificando? E poi, ne vale la pena, di soffrire e combattere una guerra che forse siamo destinati a perdere?
Non lo so, non so nulla ora, ad eccezione dell'ovvio: sono di nuovo senza lavoro, mi devo reinventare per l'ennesima volta, sono ancora in equilibrio sulla corda, non posso scendere a terra, mi tocca aprire le braccia e cercare di non cadere, e ce la farò anche stavolta, ce la faccio sempre.

sabato 8 luglio 2017

Il mio vestito non significa che sono disponibile

Ho un fisico prorompente, lo so. Sono una donna sensuale, so anche questo, e mi piace esserlo, mi piace indossare un abito che mi valorizzi e i tacchi alti, mi fa sentire sicura di me. Mi piace sentirmi sexy, carina ed in ordine, non mi piace assolutamente sentirmi preda, essere oggetto di commenti inappropriati, saluti inopportuni e fischi, seguiti da richieste di rispondere, come se fosse un obbligo. Perché no, non sono a vostra disposizione, non sono tenuta ad accettare che mi gridiate dietro ogni genere di oscenità, non devo rispondervi ed essere gentile con voi, voglio solo andare in giro per la strada senza sentirmi come un pezzo di carne nel bancone della macelleria. Non mi lusinga camminare da sola e dover abbassare lo sguardo per paura di risultare troppo provocante, non mi fa sentire apprezzata sapere che indugiate con lo sguardo sul mio sedere e lo commentate tra di voi, tra una birra e l'altra fuori dal bar dove sostate in attesa dell'ennesima donna da molestare, perché è questo che fate, ci molestate, ci fate sentire in pericolo, ridotte a corpi da commentare e magari da avere, anche senza il nostro consenso, giustificando chi ci usa violenza con un orrendo "ce la siamo voluta", solo perché abbiamo l'ardire di camminare liberamente indossando un abito corto, o andiamo fuori a bere, o semplicemente siamo donne, voi siete uomini ed è un vostro diritto, e tanto basta, no?
I 150 mt che separano l'ufficio in cui lavoro dalla fermata del pullman sono uno strazio, una gogna, difficili da sopportare anche in pieno giorno: mi sento in colpa, a volte, quasi sbagliata nei miei abiti corti e sui miei sandali alti, ed è questo che odio più di tutto il resto, odio sentirmi in difetto quando siete voi quelli che dovrebbero vergognarsi.